SCHEDA BIBLICA
MI HAI SEDOTTO, SIGNORE, E IO MI SONO LASCIATO SEDURRE” Ger 20,7-9
IL PROFETA SERVITORE DELLA PAROLA DI DIO
Geremia è uomo della Parola: si osservi bene l’inizio del libro: «parole di Geremia…» (Ger 1,1); e subito dopo, al v. 2: «a lui fu rivolta la parola del Signore»: parole di un uomo che subito divengono parole di Dio; la liturgia ci ha del resto abituati a questa dimensione divino-umana della Parola. Il profeta ha con la Parola di Dio un rapporto che è insieme di distanza – la parola del profeta, infatti, non è più sua, ma di Dio, egli non parla più a nome proprio – e di unità – la parola del profeta è ormai soltanto parola di Dio. Ecco perché un elemento fondamentale della parola del profeta è la vocazione del profeta stesso – e questo vale in particolare per Geremia! La vocazione è infatti il momento in cui Dio si appropria della parola di Geremia e la fa sua. Veniamo dunque a qualche considerazione relativa alla vocazione del profeta, narrata proprio all’inizio del libro.
Un profeta afferrato dalla Parola (Geremia 1,4-19)
Il celebre racconto della vocazione di Geremia ci presenta subito un uomo afferrato dalla Parola: cf. i vv. 4.11.13 dove per quattro volte risuona l’espressione «mi fu rivolta la parola del Signore». Notiamo subito come la Parola di Dio diviene nel racconto della vocazione di Geremia una parola che si fa dialogo: cf. i vv. 6-7; 11-12 e 13-14; Geremia e il Signore si parlano e si rispondono; le domande e le risposte si incrociano nel testo. Egli non ci dice in che modo ha ricevuto questa Parola di Dio, ma ci pone soltanto di fronte a un fatto compiuto: Dio gli ha parlato.
Parola dunque che afferra l’uomo, quella di Dio, ma anche Parola che presuppone un dialogo con l’uomo. Notiamo ancora come, di fronte a Dio che parla, Geremia resiste, non si arrende subito alla Parola: «ahimé, non so parlare, perché sono giovane» (1,6); sono cioè inadeguato per questo compito.
Anche in questo Geremia si dimostra ben diverso da Isaia che subito risponde «eccomi, manda me!» (Is 6,8). Non so parlare: questo è un lamento, non tanto una giustificazione; ahimé… io sono inadatto a portare una parola che abbia veramente un senso; a me – a Geremia – non appartiene la parola “vera”, quella che appartiene soltanto a Dio. Quella di Geremia è una vera e propria dichiarazione di impotenza: solo Dio è infatti, per Geremia, colui che parla realmente, in modo significativo. E’ possibile infatti parlare, ma allo stesso tempo non dire nulla; solo la Parola di Dio è un autentico parlare: Geremia lo sa bene, fin dal primo momento della sua chiamata. Se tuttavia Geremia afferma di non saper parlare, il Signore gli aveva appena detto (cf. 1,5) «prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto»; Dio conosce Geremia e lo ha consacrato come profeta. Dio conosce – Dio parla – Dio suscita, crea un dialogo: la vocazione di Geremia è così una piccola catechesi sulla natura della Parola di Dio intesa come autentica comunicazione. Ricordiamo ancora il testo di DV 2: Dio parla agli uomini come ad amici.
Parola di Dio tuttavia diversa da quella umana, la parola di Dio; nel v. 9 leggiamo infatti: «ecco, io metto le mie parole sulla tua bocca». Non conta qui l’autorevolezza personale di Geremia o il suo carisma, ma l’autorevolezza della parola stessa di Dio; se uno è docile alla Parola, essa produce il suo effetto. Parola dunque sovrana e regale, la Parola di Dio, parola autorevole ed efficace. Una Parola che esige tuttavia il confronto con gli altri, anche quando gli altri la rifiutano. Geremia non potrà sfuggire a tale confronto, che diventerà a tutti gli effetti la sua passione. «Non aver paura di fronte a loro, perché io sono con te per proteggerti» (1,8; cf. anche il v. 19): la Parola di Dio sa anche infondere fiducia, toglie la paura, da coraggio nelle situazioni più difficili.
La parola di Dio nelle Confessioni del profeta. Nel libro di Geremia esistono cinque bei testi nei quali il profeta “confessa” se stesso di fronte a Dio, come una sorta di diario intimo di Geremia, in analogia con le Confessioni di s. Agostino. Consideriamo due confessioni.
* Nella prima che consideriamo, il profeta si confronta con la Parola che è stato chiamato ad annunciare: «quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore, perché il tuo nome è invocato su di me» (15,16). La Parola è dunque stata fonte di nutrimento per il profeta; la metafora cibo / Parola è nota alle Scritture; basti pensare al celebre testo di Dt 8,3 «non di solo pane vive l’uomo…». Per Geremia la Parola di Dio è stata un nutrimento da divorare con avidità, un cibo che sazia, ma che anche da gioia al cuore. In questo testo, Geremia sottolinea così in modo molto plastico l’aspetto positivo del suo incontro con la Parola, un incontro che spesso – per grazia di Dio – anche noi sperimentiamo. Parola che dà gioia, parola che nutre; per noi cristiani tutto ciò ci rinvia alla dimensione liturgica della Parola: la duplice mensa della parola e del pane, quel tesoro prezioso da custodire gelosamente. Ma l’entusiasmo di Geremia è di breve durata: poco più avanti il profeta ci dice che il Signore sembra averlo abbandonato; Geremia ci parla di Dio come di «un torrente infido, dalle acque incostanti» (15,18). La Parola di Dio sembra adesso addirittura tradire le attese del profeta, non mantenere le promesse che essa stessa gli ha fatto. Geremia giunge così a un primo momento di delusione di fronte alla Parola e di fronte a Dio stesso. Si rende perciò necessaria una continua conversione del profeta alla Parola di Dio. Un nuovo dialogo tra Dio e il profeta mette in luce tale necessità: «Allora il Signore rispose: “Se ritornerai, io ti farò ritornare, e starai alla mia presenza» (15,19). In questo testo è interessante notare come la conversione alla Parola di Dio appare non tanto opera del profeta, quanto di Dio stesso: «se ritornerai, io ti farò ritornare». Lascia che sia io a plasmarti! Lascia che sia io a parlarti e che sia la mia Parola a produrre in te il suo effetto…: allora, dice ancora il Signore a Geremia, «tu sarai come la mia bocca».
* La seconda confessione di Geremia che consideriamo è più vicina al nostro tema. Contiene nuove immagini relative alla Parola e al rapporto che il profeta ha con essa, immagini che allargano ulteriormente la nostra prospettiva. La Parola di Dio è prima di tutto una parola che seduce: «mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza, e hai prevalso» (20,7). Così, afferma ancora Geremia, «la parola del Signore è diventata per me causa di vergogna e di scherno tutto il giorno» (20,8); ogni volta che egli parla, infatti, deve annunziare e insieme denunziare violenza e oppressione. Nasce dunque la tentazione, da parte del profeta, di rifiutare una parola che mette in crisi il profeta stesso; una Parola scomoda, che sembra non realizzarsi, una Parola che suscita vergogna per chi l’annuncia e gli attira soltanto scherno da parte dei suoi ascoltatori, così come avviene ancora oggi. Così, ecco la decisione drastica del profeta: «Mi dicevo: non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!» (20,9). Ne ho abbastanza della Parola: mi sento tradito, persino violentato… il mio lavoro è stato inutile, smetterò dunque di parlare in nome di Dio. Non si tratta di una esperienza rara, nelle Scritture: qualcosa del genere era già accaduto a Elia (cf. 1Re 19,1-8) e ancora accade a Giona (cf. Gn 4), entrambi tentati non solo di farla finita con la missione di profeta, ma con la loro stessa vita. Ma subito, nel momento della maggior tentazione per un profeta («non parlerò più in suo nome») appare un altro aspetto della Parola di Dio che muta completamente la situazione di Geremia; egli afferma infatti: «ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (20,9). In questo splendido testo Geremia accosta la Parola di Dio a un fuoco ardente. La Parola è così qualcosa che brucia dall’interno, che scalda e che infiamma allo stesso tempo colui che l’annuncia. Alla Parola di Dio non è perciò possibile resistere («non potevo») – la Parola, nonostante la sua debolezza – è dunque sempre efficace, ma non per opera umana. E difatti, dopo un apparente ritorno alla speranza, Geremia si chiude nuovamente sottolineando il silenzio di Dio nei confronti dei lamenti del suo profeta; lo stacco tra il v. 13, testo del tutto positivo, e i ben più tragici vv. 14-18, nei quali Geremia maledice il giorno della sua nascita, è uno stacco assolutamente drammatico. Non si tratta di un Geremia mentalmente disturbato, come qualche commentatore ha talora pensato; si tratta invece di una logica non infrequente nell’esperienza spirituale di chi è stato realmente afferrato dalla Parola: passare dalla gioia e dall’entusiasmo alla delusione e alla sensazione di sentirsi traditi da Dio. Ma proprio qui ci imbattiamo nella grandezza di Geremia: l’aver resistito, in una notte così tenebrosa, al desiderio di rinunciare alla Parola, nonostante l’apparente silenzio divino. La Parola di Dio continua così la sua corsa.
Parola fuoco.
Completiamo adesso la nostra carrellata sul tema della Parola di Dio nel libro di Geremia approfondendo alcune immagini usate dal profeta, prima di trarre alcune conclusioni che possano essere di aiuto alla nostra riflessione di cristiani chiamati ad annunciare la Parola in un contesto senz’altro molto diverso da quello di Geremia. I simboli usati dalla Scrittura hanno una meravigliosa capacità evocativa, occorre lasciare che le immagini ci provochino, ci parlino al cuore, prima ancora che alla ragione, e ci suggeriscano nuovi e più vasti orizzonti.
In Ger 20,9 ci siamo già imbattuti nell’immagine della Parola di Dio come fuoco (cf. anche Ger 5,14, dove il simbolismo del fuoco applicato alla Parola di Dio riappare in un contesto di punizione). Com’è noto, nella tradizione esodica, Dio che parla agli uomini è accostato al fuoco (cf. Dt 4,12.33); in Es 3,1-6 il fuoco del celebre roveto ardente è tuttavia qualcosa di esterno a Mosè, una realtà che sta fuori di lui; in Ger 20,9 il fuoco della Parola di Dio è invece «chiuso nelle mie ossa», è qualcosa che brucia il profeta dal di dentro. E’ come se Geremia fosse diventato lui stesso una specie di Oreb vivente: il profeta come epifania della Parola-fuoco!
L’immagine del fuoco ritorna in un bel testo di Geremia, all’interno di una lunga polemica che il profeta conduce contro i falsi profeti (23,9-32). Profeta autentico è per Geremia colui che il Signore ha davvero mandato, il cui messaggio viene dalla sua bocca (cf. i vv. 16 e 21); ma come
verificare un tale criterio? Ad esso occorre aggiungere il criterio dell’ortodossia (v. 13), ovvero della conformità della fede del profeta con la fede d’Israele, ma anche il criterio della condotta morale del profeta, della sua rettitudine di vita (cf. il v. 14). Un ulteriore criterio è quanto “costa” al profeta annunciare la propria profezia: i falsi profeti, infatti, parlano facilmente di pace, quando però la pace non c’è (cf. il v 17); essi annunciano cioè fantasie del loro cuore (v. 16), soltanto sogni vani ed illusioni (v. 27). Si noti di passaggio che per Geremia parlare di sventura è sempre in qualche modo vera profezia, perché è qualcosa che spinge alla conversione; parlare di pace è sempre troppo facile e non costa praticamente nulla a chi lo fa. Criterio senz’altro paradossale, ma per Geremia vero profeta è in ogni caso chi esorta e spinge il popolo alla conversione, a seguire le parole di Dio, non chi ci lascia tranquilli e sereni, come se nulla fosse accaduto o potesse accadere. La Parola di Dio, in un modo o nell’altro, disturba sempre, non può lasciare mai indifferenti.
All’interno di questa polemica contro i falsi profeti leggiamo poi che la Parola del Signore colpisce e lascia inebetiti, come un ubriaco: «mi si spezza il cuore nel petto, tremano tutte le mie ossa, sono come un ubriaco e come uno inebetito dal vino, a causa del Signore e delle sue sante parole» (23,9). C’è pertanto come una componente di umana follia nella Parola. La Parola di Dio ferisce lo stesso profeta, prima ancora che colpire i destinatari dell’annuncio. Non è una parola a buon mercato, che può lasciare indifferente chi l’annuncia: «le mie viscere, le mie viscere! Sono straziato. Mi scoppia il cuore nel petto, mi batte forte, non riesco più a tacere, perché ho udito il suono del corno, il grido di guerra»; così si esprime Geremia in 4,19, dopo aver preannunziato la catastrofe in nome del Signore, la cui Parola smuove il profeta nell’intimo. Una Parola che inebria e che strazia, che agita l’uomo dal di dentro, che non lo lascia più com’era prima: tutto questo è ciò che accade a Geremia.
Nel testo relativo ai falsi profeti (ancora Ger 23,9-32), l’immagine del fuoco alla quale abbiamo accennato giunge al v. 29: «la mia parola non è forse come il fuoco – oracolo del Signore – come un martello che spezza la roccia?». Ci troviamo di fronte a un altro testo davvero molto bello e provocante. La Parola di Dio è Parola che brucia e che scotta, ma anche che arde e che scalda e che trasforma lo stesso profeta («non ci ardeva forse il cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, mentre ci spiegava le Scritture?»; Lc 24,32). Potremmo domandarci, a questo punto, come mai la Parola di Dio che noi annunziamo non riesce oggi ad essere fuoco che scalda il cuore.
Conclusioni e spunti di riflessione e discussione.
E’ giunto il momento di trarre qualche conclusione che possa aiutarci a riflettere. Prima di tutto la Parola di Dio, in Geremia, è fonte di continue motivazioni per resistere, per non cedere nei momenti di difficoltà, per non cadere nella tristezza, nella rassegnazione; anche quando è parola dura (martello), è pur sempre parola che trasforma (fuoco), che non lascia mai indifferenti… Domandiamoci perciò in che modo la Parola di Dio possa essere sempre per noi principio e fondamento di resistenza nelle difficoltà, sorgente di conversione nel peccato, fonte di ispirazione e di vita.
La missione di Geremia fu di fatto un fallimento, sul piano storico; Geremia finirà in esilio in Egitto, inascoltato dai suoi stessi concittadini, anche dopo l’avverarsi delle sue minacce. La Parola di Dio è certamente fuoco, parola seducente e persino capace di “violentare” il profeta, ma è anche parola debole e disarmata. Il mondo di oggi cerca senz’altro sicurezze che non è più in grado di trovare; la Chiesa è, in questo contesto, tentata di presentarsi come maestra di parole forti, di valori assoluti e non negoziabili. La Parola di Dio è invece, come ho già ricordato, anche parola debole, senza alcuna pretesa di autorità sul piano umano; non ha altra forza che se stessa; Parola che sa accettare persino il fallimento: «la parola della croce, infatti, è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio» (1Cor 1,18). Il volto che la Chiesa cattolica, in particolare, è chiamata a offrire all’uomo è stato ben tracciato da Paolo VI nella sua enciclica programmatica, la Ecclesiam Suam (1964) “la Chiesa deve venire a dialogo con il mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio” (ES 38); un dialogo caratterizzato da chiarezza, mitezza, fiducia, prudenza (ES 47). Un dialogo in cui la Chiesa si fa evangelizzatrice con la testimonianza di vita; il mondo ha più bisogno di testimoni che di maestri, come Paolo VI ci ricordava ancora nella indimenticabile Evangelii Nuntiandi. Una Chiesa dunque che si propone al mondo come comunità in dialogo, che da parte sua possiede soltanto la forza di una Parola testimoniata all’interno di una vita attiva di fede e di carità. E nel dialogo non possiamo mai imporre noi stessi all’altro, ma solo proporre il nostro stile di vita, che sarà convincente solo nella misura in cui noi per primi saremo fedeli alla Parola. La Chiesa è chiamata infatti a fidarsi della Parola di Dio, anche quando Dio sembra essere, come dice Geremia, «un torrente infido», anche quando nasce la voglia di non parlare più «in suo nome» di fronte a un mondo che sembra non voler ascoltare. Fidandosi della Parola, nonostante tutto, Geremia rischierà la vita fino di fatto a perderla; al Signore Gesù Cristo la fiducia nella Parola del Padre costa la morte in croce: alla chiesa, la fedeltà alla Parola incarnata che è Cristo stesso costa una continua lotta contro se stessa, una continua opera di conversione, per far emergere la novità della Parola di Dio che alla fine, come anche avviene in Geremia e in modo ancor più chiaro nel Nuovo Testamento, non è mai soltanto parola di condanna «terrore all’intorno»!, ma di conversione e di speranza; un fuoco che non distrugge, ma che seduce e riscalda.
Luca Mazzinghi
Docente di esegesi AT
Facoltà Teologica, Firenze
Bibliografia essenziale
C.M. MARTINI, Una voce profetica nella città. Meditazioni sul profeta Geremia, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1994.